LE PROBLEMATICHE SOCIO-GIURIDICHE
CONNESSE ALL’IMMIGRAZIONE
ISLAMICA
IN EUROPA CON PARTICOLARE RIGUARDO
ALLA SITUAZIONE ITALIANA*
Naples
This
study deals with the migration flows from Islamic countries, or countries with
large Islamic populations, to
1. L’evoluzione dell’immigrazione
islamica in Europa e del relativo processo di
visibilitÀ
La presenza di circa dieci milioni di
musulmani residenti nell’Unione Europea si è costituita tramite
consistenti flussi migratori, che negli ultimi cinquant’anni
si sono diretti in Europa, avendo per lo più come provenienza paesi africani ed
asiatici in cui la religione islamica è del tutto prevalente o almeno molto diffusa. Con la
stabilizzazione degli immigrati nei vari paesi europei si è poi verificata la
ricostituzione e la nuova costituzione di nuclei familiari che hanno
determinato la comparsa delle nuove generazioni, spesso in possesso della
cittadinanza degli Stati di accoglienza. L’insieme di queste due componenti, ossia i
residenti stranieri originari di paesi islamici a cui va aggiunta la seconda e
terza generazione di origine immigrata,
costituisce la presenza islamica in Europa occidentale.[1]
Il processo
migratorio da cui trae origine questa presenza si è andato sviluppando
attraverso l’evolversi di quattro cicli migratori:[2]
dal 1945 alla fine degli anni sessanta; dalla fine degli anni sessanta al 1973;
dal 1973 al 1980; dal 1980 ad oggi.
I primi due
cicli, cioè quelli che hanno avuto luogo fra il 1950 e il 1970, possono esser
trattati congiuntamente dal momento che in entrambi i casi i flussi provenienti
dai paesi islamici erano inseriti in un processo di trasferimento di manodopera
che si verificava prevalentemente secondo accordi tra Stati o istituzioni di
primo piano,[3] un trasferimento che
risultava funzionale sia ai paesi di provenienza che a quelli di destinazione.[4]
Questi ultimi, infatti, furono spinti dalla carenza di risorse umane
indispensabili alla ricostruzione postbellica (anni ’50–’60, primo ciclo migratorio) nonché dal successivo lungo periodo di
crescita economica [29] che interessὸ i paesi dell’Europa nordoccidentale (anni ’60–’70, secondo ciclo migratorio), ad una progressiva espansione dei
rispettivi mercati del lavoro, così da incorporare lavoratori
provenienti non solo da paesi europei meno sviluppati (Italia, Spagna,
Portogallo, Irlanda) ma anche, e poi successivamente in maniera esclusiva, da
paesi non europei, comprese le colonie e le ex colonie.[5]
Dal canto loro, queste ultime, incoraggiati dall’elevata
domanda di manodopera nell’Europa nordoccidentale,
cominciarono ad attuare politiche atte a promuovere l’esportazione
di forza lavoro, individuando così nell’emigrazione
la strategia più adatta a risolvere quei problemi connessi all’occupazione e alla bilancia dei pagamenti[6]
che erano considerati di impedimento allo sviluppo economico.
Una delle
caratteristiche di questi primi due cicli migratori è quindi rintracciabile nel
fatto di essersi sviluppati perpetuando quei legami di familiarità instaurati
tra alcuni paesi durante il periodo coloniale. Anche se questa non è stata una
costante assoluta, tuttavia gli emigrati hanno spesso scelto come meta i paesi
con cui avevano avuto relazioni coloniali e che risultavano quindi più
familiari;[7]
questo spiega perché tutti gli Stati europei che hanno conosciuto un’immigrazione
più antica, abbiano oggi popolazioni immigrate caratterizzate dalla netta
preponderanza di una o due nazionalità specifiche.[8]
I
musulmani, che nel ventennio 1950–1970 si recavano nel Vecchio Continente,
vivevano l’emigrazione come un’esperienza
temporalmente limitata al periodo necessario per concretare quel progetto di
accumulazione monetaria che, nelle loro intenzioni, avrebbe dovuto migliorare,
una volta tornati al paese d’origine, le proprie
condizioni socio-economiche.
[30] Un’immigrazione
così intesa, cioè motivata da ragioni squisitamente economiche e vissuta
nella congettura di un ritorno, faceva sì che le strategie di
inserimento degli immigrati nella società di accoglienza fossero minime,
limitate all’ambito lavorativo. Questo spiega perché i
musulmani non avanzassero, nel periodo considerato, richieste volte alla
pubblica esplicitazione della propria appartenenza all’islam,
preferendo piuttosto relegare quest’ultimo alla dimensione
privata e domestica.[9]
La crisi
petrolifera del 1973[10]
svuotὸ la costruzione illusoria formatasi negli anni del dopoguerra
europeo attorno alle dinamiche migratorie.
La
recessione economica, conseguente alla carenza di «oro nero», provocὸ, nei paesi europei importatori di manovalanza, un
notevole incremento del tasso di disoccupazione sia tra gli autoctoni che
tra gli stranieri. Per far fronte a questa situazione furono adottate, da un
lato, misure volte a chiudere le porte ad ogni ulteriore afflusso di lavoratori
non comunitari, dall’altro, senza successo, politiche
finalizzate a favorire il ritorno in patria degli immigrati.
Per questi
ultimi, infatti, la chiusura delle frontiere nordeuropee e le politiche che
miravano a favorire il rimpatrio nei paesi d’origine, hanno contribuito a modificare la percezione dell’esperienza migratoria: l’impossibilità di
porre in essere percorsi migratori temporanei o cadenzati da ritorni
periodici—in quanto se fossero tornati nei propri paesi
non avrebbero avuto più la possibilità di rientrare in Europa—li spinse a prendere coscienza del fatto che, viste le scarse
attrattive economiche degli Stati di provenienza, rimaneva loro un’unica opzione, ossia lo stanziamento definitivo nei paesi del Vecchio
Continente dove avevano vissuto fino ad allora.[11]
Questa
presa di coscienza ebbe come diretta conseguenza l’innescarsi
del terzo dei quattro cicli migratori. Fino a quando l’emigrazione
venne percepita come un’esperienza limitata nel tempo, a
raggiungere l’Europa furono solo gli uomini, mentre mogli
e figli restavano nei paesi d’origine. Nel momento in cui,
invece, l’emigrazione mutava da temporanea [31] in
permanente, e quindi i paesi nordeuropei divenivano l’orizzonte
di vita definitivo degli immigrati, costoro si adoperarono affinché venissero
raggiunti dai propri familiari, possibilità questa garantita dall’istituto del ricongiungimento familiare.[12]
Ecco perché questo terzo ciclo migratorio fu caratterizzato prevalentemente
dalla presenza di donne e bambini e si sviluppὸ con caratteristiche molto
diverse da quelle precedenti: “se nelle due fasi
precedenti i rapporti interessavano solo l’ambito
strettamente economico e professionale, con la ricostruzione dei nuclei
familiari, la presenza delle donne, la crescita delle nuove generazioni,
sorgono problemi e bisogni nuovi, attinenti ai vari ambiti della vita, che
diventano altrettante occasioni per avviare relazioni più ampie e diversificate
con i diversi settori della società e con le istituzioni dei vari paesi”.[13] È negli anni ’70, quindi, che prende il via quel graduale processo mediante il quale l’immigrato passa da un’identificazione
etno-nazionale ad una prettamente religiosa (un
processo che col passar del tempo perderà il suo carattere di gradualità, per
acquisire quello di immediatezza. Questa avvenuta evoluzione trova nell’islam italiano il suo esempio concreto). Il mutamento dei progetti
migratori degli immigrati musulmani maschi—che ha come
conseguenza la presenza in Europa delle loro famiglie e quindi anche di giovani
da educare e da socializzare all’islam—e la scomparsa della funzione economica di tali migrazioni[14]—che vanifica lo scopo dell’emigrazione stessa,
ossia l’accumulazione monetaria[15]—
[32] ebbero, come corollario, il
rafforzamento di quella domanda di islam che fino
ad allora era stata molto debole.[16] Vengono, quindi, avanzate le prime istanze
finalizzate ad un più adeguato inserimento di questa nuova presenza nelle
istituzioni dei paesi europei. Queste ultime non incontrano particolari
problemi a soddisfare le richieste più semplici, come ad esempio quelle
relative al regime dietetico dei nuovi arrivati. Più difficile da soddisfare,
in quanto interferiscono con vigore nella vita delle popolazioni autoctone,
sono, invece, le richieste connesse all’esercizio di
quelle pratiche cultuali per espletare le quali si rivela funzionale l’occupazione di «spazi» pubblici: “l’‘aid al-kebīr, per esempio, che vede nei quartieri musulmani tra
comportamenti furtivi condurre in casa il montone che sarà ucciso dal
capofamiglia. Condotte che rinviano alle società agrarie e pastorali e che
incrinano la vita quotidiana. Il puzzo delle viscere versate nelle spazzature,
le fognature che si occludono, pelli di montone da conciare; i vicini non
musulmani che si inquietano; le società protettrici di animali che gridano, qua
o là, alla barbarie. Un modus vivendi dovrà essere trovato un po’ alla volta. Ma non c’è ancora. Come per il
periodo di ramadan, il nono mese dell’anno islamico,
effervescente, col tempo quotidiano che si rovescia tra giorno e notte. Che, in
particolare allorché avviene nel periodo estivo, è all’origine
di notti calde e agitate, dove l’allegria degli uni si
scontra con l’irritazione degli altri”.[17]
Senza
risposta rimane, poi, la richiesta di introdurre, mediante corsi di religione
islamica o con l’apertura di scuole islamiche, l’islam
nello spazio scolastico.[18]
A partire
dagli anni ottanta si assiste alla nascita di un nuovo ciclo migratorio, il
quarto. Questo, rispetto ai precedenti, appare poco definito sia [33] per
il venir meno dei legami esclusivi tra i paesi di partenza e quelli di arrivo,[19]
sia per la presenza non solo di immigrati economici ma anche di rifugiati.[20]
Altro elemento di differenziazione è individuabile nel fatto che, a partire da
questi anni, gli immigrati si dirigono, spesso clandestinamente,[21]
verso quei paesi (Italia, Spagna, Grecia e Portogallo) ritenuti non molto
attraenti dal punto di vista economico,[22]
ma facilmente accessibili perché privi di legislazione riguardante l’immigrazione
o perché i controlli all’ingresso sono facilmente eludibili.
Tuttavia, proprio per queste caratteristiche, gli
Stati della sponda meridionale dell’Europa vengono spesso considerati, dagli immigrati, come
paesi di primo accesso, da cui possibilmente proseguire il loro viaggio
in direzione delle più appetibili regioni del Nord Europa. Essendo perὸ
effettuato, da queste ultime, un severo
controllo, di solito Spagna ed Italia rimangono luogo definitivo di
immigrazione e vi si innescano le fasi successive del ciclo migratorio, in cui
gli immigrati intrecciano relazioni molteplici con la società di accoglienza attuando
la loro stabilizzazione al suo interno.
Pacini
sottolinea come “il carattere complesso e fluido di questo ciclo si è
ulteriormente rafforzato a partire dagli inizi degli anni novanta, con la
formazione di nuovi consistenti flussi provenienti dai Balcani in seguito al
crollo dei regimi comunisti. Si tratta anche in questo caso di flussi difficilmente controllabili, in cui i motivi
economici, sociali e politici si
sovrappongono, per la presenza di situazioni conflittuali nell’area, si pensi alla recente guerra
del Kosovo, o per il collasso delle istituzioni
dello Stato e della società, come è avvenuto in Albania. Situazioni similari
spingono perὸ all’emigrazione anche in altre aree,
in particolare il Kurdistan turco ed iracheno. Una novità di questi flussi è
costituita dalla composizione demografica: i nuclei familiari costituiscono una
percentuale più importante al loro interno, per cui arrivano in Europa, e
soprattutto in Italia, donne e bambini, accanto a uomini, come [34] primi immigrati. Inoltre, dal punto di vista dell’appartenenza culturale, ancora una volta predomina la composizione islamica”.[23]
A partire
dagli anni ottanta, cambia il profilo dei nuovi immigrati: “se
fino alla metà degli anni Settanta prevaleva quasi esclusivamente una
popolazione rurale ed analfabeta, ora si accentua considerevolmente la parte di
popolazione giovane, urbana ed alfabetizzata.[24]
Popolazioni create dallo sviluppo del sistema scolastico nei paesi di
provenienza con deboli sbocchi professionali. Popolazione attratta sia da una
«socializzazione anticipata» verso il consumo, sia da una socializzazione verso
il lavoro. Sono queste popolazioni che hanno fatto sorgere e sviluppare l’islam europeo”.[25]
Negli anni ottanta e novanta l’appartenenza islamica
comincia ad essere espressa in maniera sempre più esplicita dalle
popolazioni immigrate musulmane, che proseguono così quel cammino di
visualizzazione e di istituzionalizzazione avviato già negli anni settanta. La
manifestazione della adesione al messaggio di Allah, da parte degli immigrati,
avviene mediante una serie di richieste, soddisfacendo le quali si arriverebbe
ad ottenere per l’islam uno statuto paragonabile a quello che gli Stati
europei hanno concesso alle altre confessioni religiose, inserendolo
così tra le componenti del sistema socio-giuridico europeo. Le richieste
in questione possono essere così riassunte:
1. rivendicazioni
che hanno delle ricadute sull’organizzazione e la gestione degli spazi pubblici urbani: costruzione
di moschee, creazione di spazi cimiteriali destinati alle sepolture
rituali islamiche, concessione di spazi idonei per la macellazione rituale;
2. rivendicazioni
concernenti l’organizzazione del lavoro consistenti
nella richiesta di orari e calendari flessibili che permettano ai credenti di
onorare gli obblighi religiosi (le cinque preghiere quotidiane, ramaḍān, festività
religiose);
3. rivendicazioni
riguardanti l’organizzazione del sistema educativo: l’insegnamento della religione islamica nella scuola pubblica, la
possibilità di aprire scuole private islamiche, il ritorno ad un’organizzazione scolastica separata in base al sesso, la possibilità di
indossare segni di appartenenza culturali nelle classi (per esempio il ḥiǧāb); [35]
4. rivendicazioni
finalizzate ad ottenere l’applicazione dello statuto personale islamico alle controversie familiari che
coinvolgono i musulmani a prescindere dalla loro cittadinanza.[26]
Per quanto
riguarda le problematiche gestibili a livello locale, ossia quelle elencate al
punto a, le risposte delle istituzioni europee sono state positive; in merito
alle altre richieste, invece, il cui espletamento ricade nella competenza delle
amministrazioni locali—sia pur nel quadro delle leggi nazionali—o degli organi centrali dello Stato, sorgono problemi, oltre che di
ordine specificamente giuridico, anche di ordine pratico: si pensi alle
notevoli difficoltà incontrate dagli Stati europei di immigrazione nell’individuare, anche tra i musulmani in essi residenti, così come
è avvenuto in precedenza per gli appartenenti alle altre confessioni religiose,
[36] interlocutori rappresentativi di tutta la comunità islamica locale
con cui trattare le questioni connesse al suo status giuridico. Le difficoltà riscontrate da parte degli Stati
europei nell’individuare tali interlocutori sono
strettamente connesse al carattere di frammentarietà che connota le
organizzazioni islamiche europee. “Questa difficoltà è
dovuta ad un fatto strutturale all’interno dell’islam,
che non conosce, ad eccezione dell’ islam sciita, alcuna forma di clero o di
gerarchia connessa al culto. Poiché tradizionalmente nell’islam la sfera prettamente religiosa
e la sfera temporale sono strettamente unite e si
legittimano reciprocamente, in concreto è l’autorità politica, religiosamente legittimata, a controllare
e gestire tutto l’apparato religioso. Negli Stati musulmani moderni questo avviene tramite il ministero per gli Affari religiosi. Nell’ambito dell’emigrazione musulmana in Europa le
situazioni tuttavia diventano assai complesse: da un lato nelle società europee
la sfera dello Stato e quella delle confessioni religiose sono distinte ed
indipendenti, per cui lo Stato non gestisce organismi o attività religiose.
Dall’altra i musulmani presenti in Europa provengono da
una molteplicità di Stati e appartengono a una varietà di movimenti e correnti
diverse, per cui diventa arduo per loro esprimere una rappresentanza unitaria”.[27]
2. L’esperienza
italiana
L’immigrazione islamica in Italia presenta,
rispetto a quella d’Oltralpe, più differenze che analogie.
Diversi sono stati, innanzitutto, i tempi e le modalità del rispettivo divenire.
Infatti,
differentemente dai paesi nordeuropei, “l’Italia è diventata
terra di immigrazione senza volerlo e senza neppure saperlo: una decisione che
si sono incaricati di prendere i fatti anziché la politica. Alla metà degli
anni ’70, a partire dalla chiusura delle frontiere decise
dalle nazioni di antica, tradizionale immigrazione del Centro-Nord europeo, in
risposta alla crisi provocata dal primo shock
petrolifero, il nostro paese divenne per un disorientato esercito di immigranti
quello che in gergo gli esperti chiamano un second-best,
un’alternativa meno gradita ma praticabile”.[28] L’immigrazione
straniera in Italia è iniziata, quindi, in un periodo, la seconda metà degli anni
settanta, in cui la domanda di lavoro si riduceva drasticamente e aumentava per
contro, e in misura consistente, [37] la disoccupazione. Si
spiega così la singolare caratteristica del fenomeno immigratorio
italiano rispetto a quello in precedenza registrato nei paesi nordeuropei. In
questi ultimi, infatti, l’ingresso della forza lavoro
straniera fu, dallo Stato, guidata e concentrata nelle aree di elevata
industrializzazione dove, a causa della piena occupazione, le fabbriche non
trovavano più braccia disponibili tra i lavoratori nazionali. Viceversa, in
Italia gli immigrati non solo sono arrivati «spontaneamente», offrendosi ad un
sistema produttivo che non si era ancora reso conto di averne bisogno, ma hanno
trovato lavori ed occupazione, in gran parte precari
ed illegali, prima nell’area meridionale della penisola, meno
industrializzata e a più forte tensione occupazionale, e poi nei grandi centri
urbani.[29]
Se ne deduce, di conseguenza, che l’immigrazione straniera
verso lo «Stivale» ha mosso i primi passi quando oramai appariva superata la
fase dei flussi ordinati e univocamente direzionati, che nascevano dal
reciproco e a volte esplicito (in termini di legislazione, di servizi pubblici apprestati) interesse economico
del paese di emigrazione e di quello di immigrazione. Si puὸ dunque dire, riassumendo, che il movimento
migratorio verso l’Italia, così come verso gli altri paesi dell’Europa meridionale, sia stato caratterizzato dal
fatto di sorgere in concomitanza con il declino del ruolo trainante della grande
industria—che riduce dappertutto il suo contributo all’occupazione[30]—quale fattore di attivazione della domanda di lavoro[31] e
del suo effetto di richiamo.
Nell’analizzare,
quindi, i fattori che hanno portato la penisola italiana a diventare area di destinazione
delle migrazioni extracomunitarie, piuttosto che ai fattori di attrazione (pull factor), un grande rilievo va
assegnato alle cosiddette motivazioni esterne, riconducibili, oltre che alle
restrittive politiche migratorie adottate dai tradizionali paesi europei di accoglimento, anche all’enorme effetto spinta attribuito ai
fattori di espulsione (push factor) nei paesi di partenza.[32]
[38] Analogamente
a quanto già avvenuto negli altri paesi europei, anche in Italia i primi ad
arrivare sono gruppi composti, quasi esclusivamente, da maschi. Si tratta di
nuclei di immigrati tunisini che trovano occupazione in Sicilia nel settore
della pesca, in particolare presso il porto di Mazara del Vallo, e, in misura
inferiore, in quello agricolo, dove vengono impiegati soprattutto nel Ragusano,
località in cui sono molto diffuse le coltivazioni in serra.[33]
Successivamente si comincia a segnalare l'arrivo dei marocchini, i quali si
distribuiscono su tutto il territorio nazionale, dedicandosi, soprattutto nelle
regioni meridionali, al commercio ambulante. Gli egiziani,[34]
invece, che in questa fase sono il gruppo nazionale maggioritario, si impiegano
nell’area della piccola impresa del nord.[35]
Un altro
elemento che contribuisce a rendere peculiare il caso italiano nel panorama
dell’islam europeo è una presenza etno-nazionale fortemente [39] variegata.
Infatti, sebbene, oggi, la comunità con il più alto tasso di crescita sia
rappresentata dai marocchini, la popolazione immigrata islamica residente in Italia
è caratterizzata dalla presenza di altre consistenti componenti etniche e
nazionali, quali ad esempio quella albanese e senegalese. Tra i musulmani
immigrati nella penisola italiana manca, perciὸ, a differenza di quanto
avviene in paesi come Francia, Germania e Gran Bretagna dove esiste una matrice
etnica dominante nell’immigrazione—maghrebini
per la Francia, indopakistani per la Gran Bretagna e turchi per la Germania—un gruppo etno-nazionale in grado di monopolizzare il campo
immigratorio.[36] La frammentazione etnica
è dovuta nel caso italiano a due fattori. “L’Italia non ha
mai trattenuto relazioni privilegiate con le sue ex
colonie:[37] non si è mai verificata
un’immigrazione massiccia dalla
Va rilevato
che la diversità delle provenienze geografiche non è scevra di conseguenze.
Infatti, l’immigrato musulmano che risiede in Italia, così come
in ogni altro paese non islamico, vive, a seconda del paese da cui proviene, un
diverso rapporto tra ordinamento statale e ordinamento religioso. [40]
Potrebbe infatti arrivare da uno di quei paesi (Arabia Saudita, Iran,
Pakistan, Sudan, Afghanistan) in cui esiste una coincidenza pressoché perfetta
tra legge religiosa e legge statale; oppure da Stati (Egitto, Marocco, Siria,
Iraq) in cui la legge religiosa, pur costituendo in misura più o meno rilevante
uno dei fondamenti della legge civile, viene perὸ da quest’ultima recepita solo parzialmente; o, infine, giungere da Tunisia,
Turchia, Senegal, dove la legge statale è completamente, o comunque in larga
parte, indipendente da quella religiosa.
Nonostante la ridotta consistenza numerica e il carattere recente dell’insediamento,
le comunità islamiche italiane, diversamente da quelle nordeuropee, hanno
manifestato sin dall’inizio una vitalità associativa e una
«visibilità» sociale comparativamente piuttosto elevate: differentemente dai paesi d’Oltralpe connotati da una presenza
islamica più matura,
“le moschee, in
Italia, sono moschee di prima generazione, volute e
promosse da immigrati per lo più arrivati anche da relativamente poco tempo. In
altri paesi europei la loro diffusione sul territorio è invece da mettere in
relazione e in coincidenza con la presenza di una seconda generazione nei
confronti della quale si sentiva l’urgenza di una
trasmissione anche religiosa”.[39]
Il ridursi dei tempi sociali connessi alla visibilità[40] è
attribuibile in particolare, secondo Guolo, all’emergere
di una leadership comunitaria, di
marcato orientamento «islamico», che rivendica la piena visibilità sociale dell’islam nella scena pubblica e rifiuta di ridurlo alla sfera privata.[41]
Si tratta di immigrati che, infatti, a differenza [41] dei loro predecessori, sono per la maggior parte
giovani, di origine urbana, alfabetizzati e, cosa più importante,
cresciuti in quei paesi nordafricani e del
Vicino Oriente (Algeria, Siria, Egitto) che negli ultimi trent’anni hanno conosciuto il cosiddetto «risveglio islamico»,[42]
caratterizzato dal fenomeno del «ritorno alla moschea» e dalla richiesta di
islamizzazione della società.[43]
Ecco perché tali attori—oltre a soddisfare, riproponendone
la ritualità, i bisogni della fede dei propri correligionari—sono capaci di negoziare con l’ambiente
circostante quelle strategie tese a ricreare una comunità in senso islamico.[44]
Infatti “il loro primo obiettivo è quello di definire un
contesto spaziale e simbolico in cui il musulmano possa, attraverso il contatto
e l’immersione nella purezza della comunità del Profeta,
la umma,[45]
ridurre il senso d’isolamento e riadattare i propri codici
simbolici necessari per affrontare, saldamente orientati alla religione, l’esperienza dell’immigrazione in Occidente”.[46] “La
costruzione sociale dell’individuo necessita [quindi],
anche simbolicamente, della separatezza (hiǧra).
Così le leadership islamiste [sic!][47] incoraggiano
la visibilizzazione di stili di vita e di un sistema dei segni contrapposti ai
modelli della cultura dominante circostante. Il velo per le donne, la barba e
la stessa ǧallābiyya (la
lunga veste bianca) indossata dagli uomini, ogni qualvolta è possibile e
comunque nel tempo della preghiera e delle ritualità canoniche, sono tutti
elementi che mirano a rinforzare il «noi» sotteso all’identità
islamica”.[48]
Insomma, sono leader [42] la
cui preoccupazione principale è quella di trasmettere un sistema di valori e
norme di comportamento relativi alla condotta del musulmano nel nuovo ambiente
intriso di «tentazioni»: ateismo e materialismo, ineguaglianza sociale,
diffusione massiccia della criminalità, depravazione sessuale, droga e
alcolismo, prostituzione; essi vi contrappongono «la civiltà dell’islam».[49] A perseguire una
strategia di inserimento di tipo comunitario sono, dunque, prevalentemente i
movimenti «islamici»,[50]
tra cui un ruolo di spicco è svolto dai Fratelli Musulmani (al-iḫwān al-muslimūn),[51]
alla cui ideologia si ispirano i dirigenti di quelle moschee che sono
simpatizzanti o aderenti all’Unione delle Comunità
Islamiche in Italia (UCOII[52]).[53]
I movimenti
«islamici» non esauriscono, perὸ, la tipologia delle forme attraverso cui
gli immigrati musulmani esprimono la loro appartenenza [43] all’islam.
Quest’ultima, infatti, trova espressione in altre due
forme organizzative: l’«islam degli Stati» e le
confraternite religiose.
“L’azione degli Stati islamici consiste nell’insieme
di quelle iniziative poste in essere dagli Stati allo scopo di promuovere la
«versione» dell’islam da essi sostenuta e sulla quale
molto spesso basano la propria legittimazione politica. L’esempio
più evidente di questa azione è la grande moschea di Roma che è direttamente
connessa con la diplomazia e con il governo di vari Stati islamici”.[54] Infatti, i costi per la
costruzione della moschea di Monte Antenne,[55]
sede del Centro Culturale Islamico d’Italia, l’unico ad aver ottenuto, nel dicembre del 1974, il riconoscimento
ufficiale da parte dello Stato, e ad avere nel proprio consiglio di
amministrazione gli ambasciatori di molti Stati islamici sunniti presso l’Italia o presso la Santa Sede,[56]
sono stati prevalentemente sostenuti dall’Arabia Saudita
tramite la Lega del mondo musulmano, “organizzazione
saudita che ha la triplice finalità di assicurare il sostegno all’islam sul piano internazionale, soprattutto dove i musulmani
rappresentano una minoranza, di promuovere la missione islamica presso i non
musulmani in Europa e altrove, e di controllare il «tipo» d’islam praticato, influenzandolo per quanto possibile in senso
conservatore”.[57]
Particolarmente funzionale al perseguimento di quest’ultimo
obiettivo è l’interpretazione dell’islam
propria della dottrina wahhābita,[58]
che, basata sul significato letterale del Corano e sulla rigida applicazione
della šarīʿa, propugna una versione conservatrice dell’islam
per la quale la dimensione giuridica, politica e sociale del vivere devono
essere religiosamente legittimate. Esempio concreto dell’applicazione
della dottrina wahhābita è [44] appunto l’Arabia
Saudita[59]
che, per questa ragione, sembra essere contestata, all’interno
del Centro Culturale Islamico d’Italia, da altri Stati come l’Egitto, il Marocco e la Tunisia, che, perseguendo sul
piano interno un indirizzo politico volto a
realizzare una progressiva democratizzazione, cercano invece di tenere a freno
ogni sorta di radicalismo, a tal fine promuovendo, anche tra i loro immigrati
in Italia, un islam non militante e non troppo conservatore. Emblematico è, da
questo punto di vista, il caso dei tunisini. “La
Proponendo
una strategia non imperniata sul radicalismo, l’azione di questi Stati,
eccezion fatta per quella saudita, finisce con l’entrare
in contrasto con la leadership
islamica, sostenitrice, invece, di un islam militante. Il comunitarismo «islamico»
conduce una lotta aperta anche nei confronti del cosiddetto «islam nascosto»,
ossia la «non visibilizzazione» religiosa scelta dalle confraternite (ṭarīqa, pl. ṭuruq) ṣūfī,
che costituiscono la terza forma con cui si presenta l’islam
in Italia.[61] La [45] ṭarīqa più importante è
quella muride del Senegal cui
appartengono la maggior parte (ca. il 70%) dei senegalesi immigrati nel nostro
paese. Questi ultimi “compaiono [sulla scena pubblica]
esclusivamente in quanto «senegalesi», mettendo l’accento
sulla dimensione etnonazionale, più che come musulmani. Lo si evince anche dal
tipo di attività che essi svolgono, che ha finalità dirette più all’integrazione pluralistica e alla trasformazione dei concetti di
cittadinanza nella società ospite, che alla rivendicazione religiosa
comunitaria. Essi propongono dunque una rappresentazione identitaria legata
alla cittadinanza piuttosto che all’identità religiosa”.[62]
Alle
confraternite tradizionali bisogna poi aggiungere alcuni gruppi di ispirazione ṣūfī costituiti
prevalentemente da convertiti italiani. L’esempio più noto di questi gruppi è la COREIS (Comunità Religiosa Islamica),
già Associazione per l’informazione sull’islam in Italia, guidata dallo šayḫ
Pallavicini, con sede a Milano.
Pacini fa notare come “i principali centri di
competizione in Italia appartengano a ognuna delle tre grandi categorie in cui
trova espressione l’islam organizzato: l’islam
degli Stati è infatti rappresentato dal Centro Culturale Islamico d’Italia; l’islam militante è variamente rappresentato
dalle moschee e dai centri islamici che aderiscono all’UCOII;
l’ambito dell’islam ṣūfī e l’area delle confraternite sono rappresentati dalla COREIS. A questi va poi aggiunta l’Associazione dei Musulmani Italiani (AMI), che ha come proprio carattere specifico quello di
accettare come membri effettivi solo cittadini italiani e chi si proclama
seguace dell’islam sunnita, in aperta polemica con i
Fratelli Musulmani e con l’islam militante dell’UCOII”.[63]
Anche in Italia, quindi, come nel resto [46] d’Europa,
si è di fronte ad una frammentazione e ad una competizione delle organizzazioni
islamiche che rende difficile, per lo Stato italiano, il compito di trovare un
interlocutore realmente rappresentativo con cui poter trattare le condizioni
che stabiliscano lo status dei
musulmani in Italia. L’impossibilità di produrre una
rappresentanza unitaria dell’islam italiano è palesata
dalla presentazione, da parte delle organizzazioni islamiche (ad eccezione del
Centro Culturale Islamico d’Italia) di ben tre bozze d’intesa[64] con cui si chiede di dare cittadinanza,
all’interno dell’ordinamento
giuridico italiano, ai tratti maggiormente espressivi dell’esperienza
religiosa islamica. Le rivendicazioni contenute in tali bozze, che non sono
molto diverse da quelle avanzate dai musulmani negli altri paesi europei, sono
state, di recente, oggetto di attenta analisi da parte di un gruppo di studiosi
di diritto ecclesiastico.[65]
Da questa
analisi è emersa, innanzitutto, un’area in cui le richieste avanzate nelle
bozze d’intesa possono essere accolte fin d’ora sulla base della legislazione vigente: in riferimento alla
costruzione e manutenzione degli edifici di culto e alla concessione di reparti
separati all’interno dei cimiteri nonché al rispetto delle
esigenze religiose islamiche in materia di macellazione; per l’abbigliamento; con qualche limite, in ambito lavorativo; per buona
parte della problematica scolastica e dell’assistenza
spirituale nelle carceri, disciplinata dal recente regolamento di esecuzione
della legge 26 luglio 1975, n. 354.
In altri
casi è necessario un intervento legislativo, attuabile perὸ nell’ambito
della legislazione unilaterale dello Stato. In relazione al rispetto delle
festività religiose e dei «tempi di preghiera», si potrebbe provvedere con una
norma che rinvii ad accordi tra lavoratori e datori di lavoro, sulla falsariga
di quanto già avviene in alcune regioni. Qualcosa di analogo potrebbe essere
previsto per la giustificazione delle assenze [47] scolastiche nelle festività religiose e nei «tempi
di preghiera», attribuendo agli istituti scolastici il potere di regolare
questa materia con disposizioni
calibrate in relazione al numero delle richieste avanzate dagli alunni.
Infine vi
sono materie che possono essere regolate solo per via di intesa. È il caso dell’insegnamento
della religione islamica nelle scuole (con tutti i problemi connessi all’individuazione del personale insegnante) o
dell’accesso al riparto dell’otto per mille dell’Irpef destinato alle confessioni religiose (con tutti i problemi connessi
alla gestione di questa risorsa ed alla sua eventuale distribuzione fra le
diverse comunità islamiche). In questi casi sarebbe preferibile—piuttosto che rimandare ogni soluzione ad una futura intesa generale—procedere per via d’intese specifiche e
settoriali: da un lato, è probabilmente più facile che le diverse
organizzazioni islamiche trovino un accordo su una questione particolare e
circoscritta che sul complesso di questioni racchiuse in un’intesa generale; dall’altro, le intese particolari
potrebbero essere il modo per avviare il processo di costruzione di una reale
rappresentanza e per verificarne la solidità in vista di una successiva intesa
generale.
Il
principale ostacolo alla realizzazione di quest’ultima è dato proprio
dalla mancanza di un unico organismo che rappresenti la comunità islamica
italiana.
Sul terreno
più propriamente giuridico è stata avanzata, per superare questa empasse, la
proposta di stipulare molteplici intese con i diversi soggetti rappresentativi
dell’islam italiano. Rispetto a questa ipotesi, che non pone problemi sul
piano tecnico, va chiarito in via preliminare che le organizzazioni che
rivendicano la rappresentanza dell’islam italiano non
ricalcano le grandi divisioni religiose e giuridiche dell’islam:
né quella tra sunniti e sciiti né quella tra le scuole ḥanafita,
mālikita, šāfiʿita e ḥanbalita.
Un tale rilievo getta un’ombra sulla possibilità di
considerare queste organizzazioni al pari delle diverse confessioni religiose
cristiane e di replicare quindi, in riferimento alle prime, il modulo delle
intese plurime che è stato applicato con le seconde. Le divisioni che separano
le organizzazioni islamiche italiane non corrono in primo luogo lungo linee religiose, ma presentano motivazioni
prevalentemente ideologiche e politiche: pare quindi legittimo chiedersi se
concludere con esse più intese non significherebbe forzare la nozione di
confessione religiosa e di conseguenza il testo dell’art.
8 Cost., che limita la possibilità di stipulare intese alle rappresentanze di confessioni
religiose. Inoltre, secondo Cilardo “questa soluzione sarebbe
inaccettabile per i musulmani in quanto essi
credono nell’unità religiosa, anche se non più politica,
della [48] Umma islāmiyya
(comunità islamica). Sarebbe errato ritenere che il concetto di Umma abbia oggi un valore puramente
teorico. Esso, invece, ha conservato tutto il suo carattere pregnante per la
vita religiosa e civile dei musulmani in senso religioso e dottrinale. Essendo
la Umma l’insieme
di tutti i musulmani uniti dal vincolo di un’unica legge
religiosa (šarīʿa), sarebbe illogico pensare che ogni associazione islamica possa
stipulare una propria intesa con lo Stato italiano, in quanto il contenuto dell’intesa, nelle linee essenziali, non
potrebbe essere diverso per ogni gruppo di musulmani”.[66]
Alla luce
di tutto questo, alla domanda che spesso ci si è posti negli ultimi tempi,
ossia se riconoscere all’immigrato musulmano il diritto al
mantenimento della propria identità comporti come conseguenza il riconoscimento
del diritto di vivere secondo le proprie regole giuridico-religiose, si puὸ
rispondere sostenendo che, “anche se l’identità confessionale esprime un valore costituzionalmente garantito,
tale valore non è sovraordinato; vale a dire che, non solo l’ordine dello stato va distinto dall’ordine delle
confessioni, ma che questa distinzione «presuppone la primazia (di fatto, ma
anche assiologica) della sovranità dello stato, e dei valori che ne esprimono
gli aspetti essenziali, nel suo ordine», primo fra tutti «il principio supremo
di laicità»”.[67]
In definitiva, uno Stato che si dichiari laico, anche se come quello italiano
particolarmente attento alle esigenze religiose, non puὸ consentire, e di
fatto non consente, il prevalere del precetto religioso su quello civile.
Quindi il musulmano, cittadino o straniero che sia, non puὸ chiedere allo
Stato il diritto di poter legittimamente applicare i propri precetti religiosi
quando questi si pongono in conflitto con i diritti inviolabili dell’uomo che vengono riconosciuti e garantiti dalla costituzione.[68]
* Questo articolo costituisce una
sintesi della mia tesi di laurea in Diritto musulmano e dei paesi islamici, intitolata “Immigrazione
islamica e ordinamento giuridico italiano: conflitti ipotizzabili e soluzioni
possibili”, discussa presso la Facoltà di Scienze
Politiche dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli
(a.a. 1999–2000), presentata dal Prof. Agostino Cilardo.
[1] Cf. Pacini, A., «I musulmani in Italia. Dinamiche
organizzative e processi di interazione con la società e le istituzioni
italiane», in Ferrari, S. (a cura di), Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle
comunità islamiche, Il
Mulino, Bologna, 2000, p. 21.
[2] Per ciclo migratorio s’intende “il processo attraverso il quale popolazioni appartenenti ad uno spazio economico periferico entrano, si stabiliscono
e s’insediano nello spazio di uno Stato-nazione che
appartiene ai poli centrali dell’economia capitalistica”; cf. Dassetto, F., Bastanier, A., Europa:
nuova frontiera
dell’Islam, Edizioni Lavoro,
Roma, 1991, p. 251.
[3] Cf. Collinson, S., Le
migrazioni internazionali e l’Europa, Il Mulino,
Bologna, 1994, pp. 35–40.
[4] Cf. Pacini, A., «I musulmani in Italia», p. 23.
[5] Cf. Lonni, A., Mondi
a parte. Gli immigrati tra noi, Paravia, Torino, 1999, p. 37.
[6] Cf. Melotti, U., «Migrazioni internazionali e
integrazione sociale: il caso italiano e le esperienze europee», in Delle
Donne, M., Melotti, U., Petilli, S. (a cura di), Immigrazione in Europa. Solidarietà e conflitto, CEDISS (Centro
Europeo di Scienze Sociali), Roma, 1993, p. 37.
[7] «Islam in Europa e in Italia», numero monografico della
rivista XXI secolo – Studi e ricerche della Fondazione
Giovanni Agnelli 2 (1994), p. 3. Nello stesso senso cf. anche Perocco,
F., «L’Italia nella costruzione dell’islam
europeo», in Saint-Blancat, C. (a cura di), L’islam in Italia. Una presenza
plurale, Edizioni Lavoro, Roma, 1999, pp. 48–49.
[8] Cf. Ivi, p. 49.
[9] Cf. Dassetto, F., «Il nuovo Islam
europeo», in Ferrari, S. (a cura di), L’Islam in Europa. Lo statuto giuridico delle
comunità musulmane, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 20.
[10] Sulla crisi petrolifera del 1973, cf. Guarracino, S., Storia degli ultimi cinquant’anni. Sistema internazionale e sviluppo
economico dal 1945 ad oggi, Bruno Mondadori, Milano, 1999, pp.
317–321.
[11] Cf. Lonni, A., Mondi
a parte, p. 39; Bonifazi, C., L’immigrazione straniera in Italia, Il Mulino,
Bologna, 1998, p. 69.
[12] “Esso veniva
infatti garantito in tutti i paesi dell’Europa occidentale
in virtù dell’adesione da parte di questi ad alcuni
strumenti giuridici internazionali in materia di diritti umani quali, ad
esempio, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo che
invoca il rispetto della vita familiare; la Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo che afferma che la «famiglia è l’unità naturale e fondamentale della società e dello stato» (art. 16);
il Patto internazionale sui diritti civili e politici; e l’Atto finale della Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e sulla cooperazione in Europa, che stabilisce norme
per il ricongiungimento familiare”; cf. Collinson,
S., Le migrazioni internazionali, p.
121, nota 62. Circa il fatto che i flussi che costituivano la nuova fase del
ciclo migratorio islamico fossero dovuti in prevalenza da ricongiungimenti
familiari, cf. Melotti, U., «Migrazioni internazionali», p. 58.
[13] Pacini, A., «I musulmani in Italia», pp. 23–24.
[14] Perdita causata dall’alto tasso di disoccupazione conseguente
alla recessione economica di quegli anni.
[15] Cf. Dassetto, F., Bastanier, A., Europa: nuova frontiera dell’Islam, pp. 117–118; Dassetto, F., L’Islam
in Europa, Edizioni della Fondazione Agnelli, Torino,
1994, pp. 65–66; Allievi, S., Dassetto, F., Il ritorno dell’islam. I musulmani in Italia, Edizioni Lavoro, Roma, 1993, pp. 29–30.
[16] Cf. Ivi, p. 29;
Dassetto, F., «Il nuovo Islam europeo», p. 20.
[17] Allievi, S., Dassetto, F., Il ritorno dell’islam, p. 30.
[18] “Sembra perὸ che la preoccupazione di trasmettere l’islam, più forse come nucleo di valori che come fede, interessa l’insieme della popolazione musulmana perché il fallimento della socializzazione, soprattutto nella scuola, e i
fenomeni di deviazione colpiscono pesantemente le giovani generazioni—soprattutto maschili—e mettono ampiamente in discussione l’azione di
socializzazione non musulmana, nelle quali le
famiglie avevano riposto molte speranze. Emerge quindi in maniera crescente la convinzione della necessità di
ritornare ad una socializzazione islamica, la sola che possa indicare la «retta
via» ai giovani che si sono smarriti”; cf. Dassetto, F., L’Islam in Europa, p. 101.
[19] Secondo Perocco, “adesso dal Maghreb, dall’Africa sub-sahariana, dal Medio Oriente, l’emigrazione
prende la direzione di tutti i paesi europei, anche di quelli in cui non ci sono
antiche relazioni coloniali, affinità linguistiche, a volte reti comunitarie
già operanti”; Perocco, F., «L’Italia
nella costruzione dell’islam europeo», p. 50.
[20] Sulla distinzione tra richiedenti
asilo e rifugiati, cf. Collinson, S., Le migrazioni internazionali, pp. 55–56.
[21] Cf. Ivi, pp. 125–126; Perocco, F., «L’Italia nella costruzione dell’islam europeo»,
p. 51.
[22] Cf. Melotti, U., «Migrazioni internazionali», p. 42.
[23] Pacini, A., «I musulmani in Italia», pp. 24–25.
[24] Nello stesso senso, cf. Perocco: “si
verificano mutamenti strutturali nelle società di partenza che condizionano
totalmente le pratiche ed i progetti migratori dei nuovi immigrati musulmani.
La nuova immigrazione è infatti composta da popolazione prevalentemente
giovane, urbana e alfabetizzata, al contrario dei flussi del passato, composti
per la maggior parte da una popolazione rurale e analfabeta”; Perocco, F., «L’Italia nella costruzione dell’islam europeo», p. 50.
[25] Cf. Dassetto, F., Bastanier, A., Europa: nuova frontiera dell’Islam, pp. 253–254.
[26] Quest’ultima richiesta, nella sua formulazione
esplicita, è stata avanzata solo in Gran Bretagna. “Il
primo tentativo volto ad introdurre nell’ordinamento
giuridico inglese uno statuto personale islamico è stato compiuto alla
conferenza organizzata a Birmingham nel 1975
dall’Union of Muslim Organizations (UMO) del Regno Unito e dell’Eire; da allora
questa proposta è stata ribadita in numerose altre occasioni. Recentemente, una
simile richiesta è stata presentata nel «Muslim Manifesto» pubblicato dal Muslim Institute. Contemporaneamente
alla domanda dell’UMO di introdurre un sistema di statuto
personale, Zaki Badawi ha predisposto un modello di testamento diretto a
consentire ai musulmani di disporre delle loro proprietà in modo conforme sia alla
legge islamica che a quella inglese: ma il progetto di Badawi non ha suscitato
alcun interesse. Fino ad oggi nessun governo britannico ha mostrato la minima
propensione ad introdurre uno statuto giuridico personale per i musulmani”; cf. Bradney, A., «Lo statuto giuridico dell’Islam
nel Regno Unito», in Ferrari, S. (a cura di), L’Islam
in Europa, pp. 182–183. Cf. anche
Nielsen, S. J., «Il diritto familiare nelle rivendicazioni delle popolazioni
musulmane in Europa», in AA. VV., I
musulmani nella società europea, Edizioni della Fondazione Agnelli, Torino,
1994, pp. 79–89. Sulla complessa problematica relativa
alla stipula di un’intesa tra lo Stato italiano e la
confessione islamica, si veda il recente libro di Cilardo, A., Il diritto
islamico e il sistema giuridico italiano. Le bozze di intesa tra la Repubblica Italiana e le Associazioni islamiche
italiane, Presentazione di
Borrmans, M., Introduzione di Musselli, L., Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli, 2002.
[27] Cf. Pacini, A., «I musulmani in Italia», p. 29.
[28] Cf. Bolaffi, G., Una
politica per gli immigrati, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 31.
[29] Cf. Ivi, pp. 31–32;
Pugliese, E., «L’immigrazione», in AA. VV., Storia dell’Italia repubblicana, vol. III,
tomo I, Einaudi, Torino, 1996, pp. 934–935; Tonizzi, M. E., Le correnti migratorie del ’900, Paravia, Torino, 1999, p.
143.
[30] Da questo punto di vista, Pugliese fa notare come l’Italia
stia invece cominciando a rappresentare oggi un caso particolare, dato il
crescente inserimento degli immigrati nelle piccole aziende; cf. Pugliese, E.
(a cura di), Rapporto immigrazione.
Lavoro, sindacato, società, Ediesse, Roma, 2000, p. 15.
[31] Cf. Ibidem.
[32] Cf. Harrison, G., «Antropologia culturale dei processi
migratori e i diritti umani», in Damiano, E. (a cura di), Homo migrans, Franco Angeli, Milano, 1998, pp. 132–136;
Melchionda, E., «Il paradosso italiano», in Delle Donne, M., Melotti, U., Petilli, S., Immigrazione in Europa, pp. 185–186; Sgroi, E., «L’impatto economico della immigrazione:
teoremi, metafore, realtà», in Sociologia urbana e
rurale 60 (1999), p. 35; Natale, M., Strozza, S., Gli immigrati stranieri in Italia, Cacucci, Bari, 1997, pp. 213–214. Diversamente per Bonifazi, “l’aumento dei fattori espulsivi spiega solo parzialmente questa dinamica
del fenomeno che trova, infatti, all’altro polo, una
permanenza, sia pur su parametri qualitativi e quantitativi differenziati, di
fattori di richiamo, o almeno di potenziale assorbimento, di natura economica.
Settoriali e circoscritti, non più basati su uno squilibrio quantitativo
complessivo dei sistemi economici, ma sulla permanenza, in un quadro di
generale eccesso di offerta, di squilibri settoriali, a volte di grande
intensità, legati ai processi di segmentazione territoriale e settoriale del
mercato del lavoro. In questo senso la situazione italiana rappresenta un
esempio assai significativo, anche perché la segmentazione del mercato del
lavoro e gli squilibri economici settoriali assumono un’articolazione
territoriale che trova, con ogni probabilità, pochi riscontri all’estero, non solo nella ben nota direttrice Sud-Nord, ma anche per
ambiti geografici molto più ristretti e circoscritti, dato che, specie nell’Italia centrosettentrionale, la differenziazione assume una veste microterritoriale,
con forti connotati di specializzazione produttiva tra aree anche contigue”; Bonifazi, C., L’immigrazione straniera in
Italia, pp. 175–176.
[33] Sull’immigrazione tunisina in Sicilia, cf.
Slama, H., ...e la Sicilia scoprì
l’immigrazione
tunisina, INCA-CGIL Sicilia, Palermo, 1986.
[34] Sulle politiche migratorie egiziane, cf. Mancini, L., Immigrazione musulmana e cultura giuridica.
Osservazioni empiriche su due comunità di egiziani, Giuffrè, Milano, 1998,
pp. 80–93.
[35] Cf. Pugliese, E., «L’immigrazione», pp. 937–938.
[36] Cf. Pace, E., Perocco, F., «L’Islam plurale degli immigrati in Italia», in Studi emigrazione, anno XXXVII, marzo,
137 (2000), p. 4.
[37] Cf. Giannasi, A., «Musulmani in Italia», in Africa 2 (2000), <http://www.
cadr.it/islam/00-2-giannasi.htm> (02 aprile 2003).
[38] Cf. Fouad Allam, K., «L’Islam contemporaneo in
Europa e in Italia fra affermazione identitaria e nuova religione minoritaria»,
in Zincone, G. (a cura di), Secondo
rapporto sull’integrazione
degli immigrati in Italia, Il Mulino, Bologna, 2001,
pp. 334–335.
[39] Cf. Allievi, S., «Complessità e dinamiche dell’islam in Italia», in El Ayoubi, M., Islam plurale, Edizioni com nuovi tempi,
Roma, 2000, p. 95.
[40] “Se era intuibile che prima o poi l’Islam
si sarebbe manifestato con forza in seno alle comunità immigrate anche nel
nostro paese (per capirlo bastava dare un’occhiata anche
distratta a quanto stava accadendo oltre confine dal lato nord, negli altri
paesi europei), non altrettanto si puὸ dire della velocità con cui questo
è accaduto: superiore, senza dubbio, a quella osservata in altre realtà
europee. L’islamizzazione dell’immigrazione,
per usare una terminologia anche troppo forte, è avvenuta in Italia più in
fretta che altrove: quando gli immigrati si erano appena stabiliti, quando
avevano appena disfatto le valigie. L’Islam è diventato
subito, o quasi, una componente importante del processo di socializzazione
degli immigrati; e molto presto una componente visibile anche all’esterno, nello spazio pubblico”; Allievi, S.,
«Dall’Islam ai musulmani. Fare ricerca su una ‘religione immigrata’», in Sociologia urbana e rurale 58 (1999), p. 112. Cf. anche Pace, E.,
Perocco, F., «L’Islam plurale», p. 5.
[41] Cf. Guolo, R., «Attori sociali e processi di
rappresentanza nell’islam italiano», in Saint-Blancat, C. (a
cura di), L’islam in Italia, p. 67; Fouad Allam, K., «L’islam contemporaneo»,
p. 328.
[42] Cf. Allievi, S., Dassetto, F., Il ritorno dell’islam, pp. 132–134.
[43] Cf. Guolo, R., «È possibile un partito islamico in Italia?», in Limes 4 (1997), pp. 271–272;
Giannasi, A., «Musulmani in Italia»; Fouad Allam, K., «L’islam
contemporaneo», pp. 324–326.
[44] Cf. Guolo, R., «Attori sociali», p. 69.
[45] Sulla concezione della umma nell’islam dell’immigrazione,
cf. Fouad Allam, K., «L’islam contemporaneo», pp. 326–328. Sulle implicazioni giuridiche del concetto di umma, si veda
Cilardo, A., «La comunità islamica», in Ende, W., Steinbach, U. (a cura di), L’islam oggi, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1993,
pp. 13–42.
[46] Cf. Guolo, R., «Attori sociali», p. 71.
[47] Guolo traduce il termine francese islamiste, che in quella lingua indica i movimenti islamici
radicali, con l’italiano islamista; tale termine, perὸ, nella nostra
lingua vuol dire «studioso di cultura islamica».
[48] Cf. Guolo, R., «Attori sociali», p. 74; Id., «Europa, terra d’Islam»,
in Il Mulino, anno XLVIII, maggio – giugno, 1999, p. 548; nonché Melfa, D., «L’Islàm
a Catania», in La critica sociologica,
luglio – settembre, 130 (1999), pp. 63–64.
[49] Cf. Guolo, R., «Attori sociali», p. 70; Id., «È possibile un partito
islamico in Italia», p. 278; Id.,
«Europa, terra d’Islam», p. 548.
[50] Di diverso avviso è invece Allievi per il quale “per
un paradosso solo apparente, questi movimenti politicamente più radicali
svolgono in realtà un ruolo implicitamnete «conservatore» e «calmieratore», più
di freno che di acceleratore, sulle tematiche legate all’immigrazione
e ai diritti dei musulmani, in parte perché timorosi di reazioni, ma
soprattutto perché il loro centro di interessi si è «esternalizzato, legato com’è alla situazione dei paesi di origine piuttosto che di quello di
accoglienza”; cf. Allievi, S., «Complessità e dinamiche», p. 98.
[51] Sui Fratelli Musulmani, cf. Cilardo, A., «Su alcune
recenti formazioni islamiche», in Goldziher, I., Lezioni sull’islām, Edizioni
Scientifiche Italiane, Napoli, 2000, pp. 325–333.
[52] “L’Ucoii nasce nel 1990, per impulso di alcuni membri del
Centro islamico di
Milano [a sua
[53] Sulle moschee italiane vicine ai
Fratelli Musulmani, cf. Pacini, A., «I musulmani in Italia», p. 44.
[54] Cf. Ivi., p.
37.
[55] Cf. Allievi, S., «L’ombra di San Pietro», in Il Manifesto, 8 agosto 2000.
[56] Nella lotta per l’acquisizione della leadership dell’islam italiano, tale argomento è stato utilizzato dal Centro Islamico
di Milano e della Lombardia per sostenere che il Centro Islamico Culturale d’Italia non sarebbe rappresentativo perché promosso dalle ambasciate, e siccome le ambasciate sono extraterritoriali, appartengono ai paesi d’origine, per cui si tratta di
stranieri, che come tali non possono pretendere di
rappresentare l’islam italiano. Cf. Allievi, S.,
«Organizzazione e potere nel mondo musulmano: il caso della comunità islamica
di Milano», in AA. VV., I musulmani nella
società europea, pp. 172–173.
[57] Cf. Pacini, A., «I musulmani in Italia», p. 37.
[58] Sul movimento wahhābita e la sua dottrina, cf.
Cilardo, A., «Su alcune recenti formazioni islamiche», pp. 307–309.
[59] Cf. Reissner, J., «Libia e Arabia Saudita», in Ende, W.,
Steinbach, U. (a cura di), L’islam oggi, Edizioni
Dehoniane, Bologna, 1993, pp. 501–511.
[60] Cf. Pacini, A., «I musulmani in Italia», p. 39; Schmidt
di Friedberg, O., Borrmans, M., «Musulmans et
chrétiens en Italie», in Islamochristiana 19 (1993), pp. 160–161.
[61] Sulle confraternite, cf. Aluffi Beck-Peccoz, R., «L’islam
delle confraternite», in Ferrari, S. (a cura di), Musulmani in Italia, pp. 59–62, nonché
Speziale, F., «I sentieri di Allah:
aspetti della diffusione dell’Islam delle confraternite in Italia», in La critica sociologica, ottobre – dicembre,
135 (2000), pp. 10–32.
[62] Cf. Guolo, R., «Le tensioni latenti nell’islam
italiano», in Saint-Blancat, C. (a cura di), L’islam in Italia, p. 167. Nella stessa pagina l’autore mette in evidenza come “su questa scarsa propensione alla
visibilizzazione religiosa, incide probabilmente anche una sorta di
interiorizzazione del concetto di separazione tra religione e politica,
caratteristica storica di uno Stato come il Senegal, fortemente influenzato dal
modello francese di laicità. Pur essendo religione maggioritaria, l’islam non è in Senegal religione di Stato. Piuttosto che dal comunitarismo
islamista, la presenza dei senegalesi sulla scena pubblica italiana è
caratterizzata dal «senegalismo» e da un panafricanismo improntato ai «diritti
universali dell’uomo» che non si pone in contrasto con la
cultura del paese ospitante”.
[63] Cf. Pacini, A., «I musulmani in Italia», p. 48.
[64] Cf. «Bozza d’intesa tra la Repubblica Italiana e l’Associazione Musulmani Italiani», in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica 2 (1996), pp. 536–545; «Bozza d’intesa tra la Repubblica Italiana e
la Comunità Religiosa Islamica», in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica 2 (1998), pp. 567–575. La bozza d’intesa presentata dall’UCOII è disponibile sul sito internet
<http://www. islam-ucoii.it/intesa.htm> (02 aprile 2003).
[65] Tale analisi è confluita nel libro, a cura di Silvio
Ferrari, Musulmani in Italia. La
condizione giuridica delle comunità islamiche, Il Mulino, Bologna, 2000,
qui più volte citato, sul quale si veda la recensione di Agostino Cilardo in Journal of Arabic and Islamic Studies 3
(2000), pp. 114–126. Per un’analisi del contenuto
islamico delle bozze, si veda Cilardo, A., Il diritto islamico e il sistema
giuridico italiano.
[66] Cf. Cilardo, A., recensione a: Ferrari, S. (a cura di), Musulmani in Italia, p. 119.
[67] Cf. Ivi, p.
117.
[68] Cf. Camassa Aurea, E., «L’immigrazione
proveniente dai paesi islamici: conflitti ipotizzabili e soluzioni possibili»,
in Archivio giuridico 215,1 (1996),
p. 48.