Musulmani in Italia: La condizione giuridica delle comunità islamiche

a cura di Silvio Ferrari: ArticOlO RECENSIONE

 

Agostino Cilardo

 

Istituto Universitario Orientale, Naples

 

The Muslim presence in Italy, and in Europe generally, is steadily increasing. This encounter of two so different cultures is a source of mutual enrichment, but it also creates a new situation, making it necessary for Europe to discuss the position of such a presence in its borders. The legislation of Spain, Germany, Belgium, and France, in addition to that of Italy, is examined in the book edited by Ferrari. The system followed in Italy with regard to religious denominations is based on a legal agreement between the State and the religious group concerned, the agreement always safeguarding the supreme principle of a non-denominational State. However, a series of questions must first be resolved in the case of Islam. Since three proposals have been presented up to now, the first question is to determine the association that truly represents Muslims. Once this has been done, many of the requests made by Muslims will find an answer in existing legislation. Only a few will need to be the subject of special agreements.

 

L’opera curata da Ferrari,[1] arricchita da un notevole apparato di note, prende in esame una gamma molto vasta di questioni giuridiche che la presenza islamica in Italia, ma più in generale in Europa, pone. La problematica affrontata dai singoli autori verte essenzialmente sul tema, attualmente dibattuto in Italia, della stipula di un’intesa tra la Repubblica italiana e la confessione islamica, sulla base dell’art. 8 della Costituzione italiana che prevede questo strumento al fine di regolare i rapporti tra lo Stato italiano e le confessioni religiose diverse da quella cattolica. Una prima bozza di intesa è stata formulata e presentata nel 1992 dall’U.C.O.I.I. (Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia); la stessa richiesta veniva avanzata nel 1993 in una lettera ufficiale del Centro Culturale Islamico d’Italia allo Stato italiano. Nel 1994, l’Associazione dei Musulmani Italiani propose una propria bozza di intesa. Infine, nel 1996, l’Associazione per l’informazione sull’Islam in Italia-Coreis ha presentato [115] una ultima bozza di intesa.[2]

Il libro, suddiviso in tre parti, inizia con un’utile Introduzione (pp. 7–18) di Silvio Ferrari in cui si sottolinea lo scopo dell’opera e le possibili soluzioni delle singole questioni trattate. Se, da una parte, il curatore intende “verificare un’ipotesi di politica del diritto che permetta di affrontare in maniera adeguata il problema dei diritti di religione spettanti alla comunità musulmana del nostro paese” (p. 7:2ss), dall’altra egli traccia un percorso di grande interesse pratico “in preparazione della conclusione di un’intesa generale” (p. 17:22) con l’Islam. Il curatore, infatti, ha delineato uno schema molto lineare per la redazione dei singoli articoli; egli ha chiesto a ciascun autore “di valutare quali problemi potessero essere affrontati già ora sulla base della normativa esistente, quali richiedessero interventi attuabili per via di legislazione ordinaria e quali invece potessero essere risolti soltanto attraverso gli strumenti pattizi, prospettando le soluzioni ritenute praticabili e preferibili” (p. 15:1ss). In base alla risposta data dai singoli autori si sono potute intravedere tre possibili aree di intervento: se, da una parte, alcune richieste presenti nelle bozze possono essere accolte sulla base della legislazione vigente, dall’altra vi sono casi in cui si richiede un intervento legislativo unilaterale dello Stato; vi sono, infine, materie che possono essere regolate solo per via di intesa. In quest’ultimo caso, suggerisce Ferrari, si potrebbe “procedere per via di intese specifiche e settoriali” (p. 16:22s).

Ferrari fa notare come nel corso degli ultimi anni le intese abbiano in parte mutato carattere per acquisire, oggi soprattutto, un valore simbolico. Questo fatto genera il timore che, nel caso dell’Islam, lo strumento dell’intesa possa essere male utilizzato. Anche se questo timore potrebbe essere condivisibile, tuttavia sembra discutibile utilizzare, in luogo dell’intesa, “la legislazione protettiva delle diversità culturali” (p. 9:16s). Ferrari suggerisce un “sistema integrato”, ma mantenendo in modo molto fermo che “la distinzione tra identità religiosa e identità culturale (che riflette quella tra sacro e profano, spirituale e temporale) è un elemento portante e non «negoziabile» della civiltà occidentale” (p. 9:21ss). Certo, si potrebbe obiettare che l’Islam sia incompatibile “con alcuni principi fondamentali dell’ordinamento giuridico (e non solo giuridico) italiano, quali la laicità dello Stato, il pluralismo e la stessa distinzione dell’ordine spirituale e temporale” (p. 10:3ss). A questo proposito, Ferrari suggerisce il valido criterio, che a mio avviso può essere seguito solo se i singoli istituti vengono inquadrati nel loro preciso contesto islamico, di “valutare, caso per caso, quali comportamenti, attività, istituti giuridici della comunità musulmana siano [116] contrastanti con questi principi” (p. 10:24ss).

Un problema connesso a quello dell’intesa riguarda la questione della reciprocità. Se, da una parte, “la trasposizione del principio di reciprocità dal diritto internazionale (che è il suo ambito naturale) al diritto ecclesiastico non appare possibile” (p. 11:21ss), in quanto “è perlomeno dubbio che uno Stato laico possa subordinare la disciplina dei rapporti con i membri (non cittadini) di una confessione religiosa alla circostanza che i propri cittadini, fedeli di un’altra confessione religiosa, godano di analoghi diritti nei paesi di cui i primi sono cittadini” (pp. 11–12), dall’altra, a mio avviso, la discussione sulla reciprocità potrebbe essere spostata sul piano più generale del dibattito sui diritti dell’uomo.

Un’altra questione di grande rilevanza, comune peraltro a tutti i paesi europei, riguarda la rappresentanza della comunità islamica italiana (pp. 12–14). La soluzione di questo problema non appare agevole in quanto esiste una pluralità di soggetti che rivendica la rappresentanza di tutti i musulmani italiani.

La PRIMA PARTE (pp. 19–105) prende in esame Il contesto sociale e giuridico, e, nei quattro contributi che la compongono, affronta alcuni argomenti di carattere generale. Andrea Pacini (“I musulmani in Italia. Dinamiche organizzative e processi di interazione con la società e le istituzioni italiane”, pp. 21–52) mette in risalto come i musulmani in Europa si siano trasformati da immigrati a residenti definitivi e come, per questa “loro inserzione attiva nella società europea” (p. 25:33s), l’Islam cominci ad essere visibile e in tutta l’Europa vengano avanzate richieste specifiche per un loro pubblico riconoscimento. Anche in Italia la presenza islamica si è costituita in termini significativi e si presenta sotto varie forme associative, anche se si riscontra una diversa tipologia di appartenenza individuale all’Islam. Tuttavia, il problema più importante per l’Islam in tutti i paesi europei riguarda la sua leadership e rappresentanza ufficiale, come del resto si evince in Italia dalla presentazione di più bozze di intesa.

L’Islam in Occidente è una realtà spesso, o sconosciuta, o conosciuta male o conosciuta solo parzialmente. E, d’altra parte, anche il mondo islamico spesso dell’Occidente, confuso a volte con il Cristianesimo, conosce solo i simboli peggiori. Sarebbe necessario un grande sforzo di mutua comprensione. Anche in questo volume si riscontra la lacuna, ma fortunatamente solo questa, di una lettura unilaterale delle bozze di intesa; esse, infatti, non sono state esaminate dal punto di vista del diritto islamico, al quale pure fanno continuamente riferimento; manca una loro lettura interna. L’opera curata da Ferrari è estremamente interessante per i temi affrontati, tutti però secondo un’ottica occidentale. Non c’è dubbio che, per il particolare valore che i musulmani attribuiscono al diritto islamico, “diritto sacro”, tutte le bozze [117] non potevano non fare un riferimento esplicito o implicito a concetti fondamentali di quel sistema dottrinale. Se la legge religiosa islamica è la manifestazione più tipica del tipo di vita islamico, il nucleo dello stesso Islam, la “conoscenza” (fiqh) per eccellenza, sarebbe stato utile mettere in risalto il senso ed il valore religioso e giuridico di questo riferimento tracciando anche, se possibile, la distinzione esistente tra diritto islamico, diritto ebraico, diritto canonico e sistemi giuridici occidentali. Nel suo intervento, Roberta Aluffi Beck-Peccoz (“Islam: unità e pluralità”, pp. 53–66) presenta qualche elemento della dottrina islamica sull’unità e l’unicità di Dio e l’unica sua comunità; poi delinea brevemente la distinzione tra sunnismo e sciismo, parla dell’Islam delle confraternite, e descrive qualche tratto generale del diritto islamico. Tuttavia questi chiarimenti non toccano direttamente il contenuto islamico delle bozze di intesa.

Renzo Guolo (“La rappresentanza dell’Islam italiano e la questione delle intese”, pp. 67–82) tocca un tema generale di estrema importanza per l’Islam. In Italia vi sono varie istanze che reclamano la rappresentanza dei musulmani. Oltre al Centro islamico di Milano e Lombardia (U.C.O.I.I., Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia), vi sono il Centro Islamico Culturale d’Italia, noto come “la Moschea di Roma” (l’U.C.O.I.I. ha portato avanti una politica di alleanze con forze affini presenti nel Centro Islamico d’Italia), la Coreis (Comunità Religiosa Islamica Italiana) e l’Ami (Associazione dei Musulmani Italiani), ma anche altri gruppi che o perseguono una integrazione individuale, oppure non sono interessati all’intesa, come gli sciiti o certe forme di Islam radicale o correnti senza rappresentanza, come la confraternita senegalese della murīdiyya. L’Italia, che mira a favorire la nascita di un Islam nazionale, chiede ai musulmani di definire la questione della loro rappresentatività ai fini negoziali. Ma, afferma l’autore, “è proprio la riaffermata appartenenza alla comunità (umma) mondiale a rendere problematica la “nazionalizzazione” dell’Islam italiano” (p. 81:25ss).

Il contributo più interessante della prima parte è senza dubbio quello presentato da Giuseppe Casuscelli (“Le proposte d’intesa e l’ordinamento giuridico italiano. Emigrare per Allah/emigrare con Allah”, pp. 83–105), dove egli affronta, da una parte, la problematica generale relativa al tema delle intese tra la Repubblica italiana e le confessioni religiose diverse da quella cattolica, e dall’altra la problematica specifica dell’intesa con la confessione islamica. Dopo aver presentato un prospetto delle intese stipulate negli ultimi quindici anni, l’autore sottolinea un principio fondamentale per l’ordinamento giuridico italiano: anche se l’identità confessionale esprime un valore costituzionalmente garantito, tale valore non è sovraordinato; vale a dire che, non solo l’ordine dello Stato va distinto dall’ordine delle confessioni, [118] ma che questa distinzione “presuppone la primazia (di fatto, ma anche assiologica) della sovranità dello Stato, e dei valori che ne esprimono gli aspetti essenziali, nel suo ordine” (p. 87:20ss), primo fra tutti “il principio supremo di laicità” (p. 88:6s). Se una società pluriconfessionale è ormai una realtà consolidata in Occidente, ciò che va evitato è “un «pluriconfessionalismo» dello Stato da cui le dimensioni della laicità rischierebbero di essere fortemente limitate se non travolte”.[3]

Una questione generale riguarda anche il contenuto delle intese. Finora, nella scelta delle materie da regolare in via pattizia o in via unilaterale è prevalso un criterio empirico; emerge tuttavia, secondo l’autore, l’esigenza teorica di individuare previamente le materie che, sulla base della Costituzione, debbano essere regolate dall’una o dall’altra fonte normativa, e ciò in base all’esigenza giuridica della certezza del diritto.

La Costituzione italiana, dando molto risalto ai diritti dell’uomo e disancorandoli dalla «cittadinanza», garantisce non solo la libertà religiosa del «cittadino», ma anche quella dello «straniero», “senza il limite della condizione di reciprocità” (p. 93:3s). L’autore si chiede se lo straniero abbia anche dei «diritti di partecipazione». La risposta è che “le intese nel nostro ordinamento pluralista siano uno strumento di partecipazione” (p. 94:24s). Alla questione se un diritto all’intesa si possa riconoscere anche alle confessioni costituite nella totalità o in massima parte da stranieri, l’autore risponde che “l’art. 19 della Cost. garantisce il diritto di associarsi (classico diritto di partecipazione) a fine di religione anche allo straniero ed all’apolide” (p. 95:6ss), e che “il «diritto all’intesa» possa essere configurato quale situazione giuridica soggettiva propria (non dell’individuo, ma) della confessione alla quale i fedeli appartengano” (p. 95:9ss). Tuttavia, una intesa stipulata con una confessione composta quasi esclusivamente da stranieri residenti comporterebbe “inevitabilmente l’insorgere di ulteriori, nuovi conflitti di lealtà” (p. 97:2s).

Per quanto riguarda poi il caso specifico dell’Islam, si pone l’ulteriore problema del potere di rappresentanza nei suoi rapporti con lo Stato italiano. Dal momento che vi sono stati degli autoriconoscimenti da parte di varie associazioni islamiche, lo Stato italiano deve ritenere che il potere di rappresentanza di ciascuna di loro sia circoscritto ai fedeli che vi aderiscono formalmente e liberamente. Tuttavia, l’autore avanza una interessante ipotesi che finora, però, non sembra essere stata presa in grande considerazione [119] dalle comunità islamiche. Dal momento che, egli sostiene, in passato, sul piano teorico “sono state ritenute ammissibili sia intese «collettive» sia intese «aperte» o «plurime»” (p. 100:7ss), sarebbe possibile a più comunità islamiche federarsi per dar vita ad una sorta di raggruppamento temporaneo di confessioni, come è già avvenuto in passato in Italia per la Tavola valdese e per l’Unione delle comunità ebraiche italiane. Tuttavia il rischio che nel modello federativo si legittimi la posizione dominante di una comunità su altre, fa propendere l’autore per il “ricorso a specifiche intese con le singole comunità, che vincolino unicamente i fedeli ad esse appartenenti” (pp.101–102). A mio avviso, però, quest’ultima soluzione sarebbe inaccettabile per i musulmani in quanto essi credono nell’unità religiosa, anche se non più anche politica, della Umma islāmiyya (comunità islamica). Sarebbe errato ritenere che il concetto di Umma abbia oggi un valore puramente teorico. Esso, invece, ha conservato tutto il suo carattere pregnante per la vita religiosa e civile dei musulmani in senso religioso e dottrinale. Essendo la Umma l’insieme di tutti i musulmani uniti dal vincolo di un’unica legge religiosa (šarīʿa), sarebbe illogico pensare che ogni associazione islamica possa stipulare una propria intesa con lo Stato italiano, in quanto il contenuto dell’intesa, nelle linee essenziali, non potrebbe essere diverso per ogni gruppo di musulmani.

Infine, l’autore affronta un altro problema cruciale per i rapporti Stato italiano-Islam. Dalle bozze di intesa presentate finora dalle varie associazioni islamiche italiane sembra emergere una “pretesa, implicita o esplicita, di rappresentare sia gli interessi «religiosi» dei fedeli, sia quelli indirettamente collegati alle esperienze di fede sia, persino, quelli privi di collegamento anche indiretto, volendo così negoziare «comunitariamente uno statuto derogatorio di cittadinanza fondato su un’identità religiosa»” (p. 102:12ss). Ma, osserva l’autore, questo “sarebbe, per un verso, in contrasto con il principio costituzionale della distinzione degli ordini e con il potere di rappresentanza che spetta, secondo le regole del diritto internazionale, agli Stati cui appartengono i musulmani stessi. Per altro verso, potrebbe determinare situazioni di tensione tra le diverse comunità, ed ingenerare di conseguenza occasioni di conflitto con le autorità di governo centrale e periferico nei campi più disparati nei quali opera la pubblica amministrazione” (p. 104:3ss). In questo contesto, sarebbe stato utile fare riferimento al concetto di “statuto personale”, utilizzato nelle legislazioni di alcuni paesi islamici contemporanei, la cui definizione è più ampia rispetto all’analogo concetto occidentale in quanto lo statuto personale islamico, per la sua particolare indole religiosa, comprende alcune materie che, viceversa, per il loro [120] oggetto, dovrebbero appartenere allo statuto reale.[4] È importante poi sottolineare che gli istituti inclusi nello statuto personale islamico, proprio per la loro peculiarità, non si trovano nei codici civili dei paesi islamici, ma sono oggetto di leggi speciali. Infatti, per i musulmani, questa materia non può essere regolamentata dagli uomini, ma ha la sua ragion d’essere nella volontà di Dio, così come è espressa nella legge religiosa islamica, un sistema giuridico peculiare, non assimilabile al diritto romano ed ai sistemi giuridici da questo derivati.

La SECONDA PARTE (I problemi, pp. 107–241), comprendente otto contributi, è quella più corposa e di più pratica utilità in quanto prende in considerazione alcuni istituti specifici regolamentati nelle varie bozze di intesa. Gli autori ne hanno esaminato il contenuto dal punto di vista della loro compatibilità con i principi fondamentali e con le norme positive dell’ordinamento giuridico italiano. In molti casi, gli autori sono giunti alla conclusione che l’attuale legislazione unilaterale dello Stato sia sufficiente per rispondere efficacemente a molte richieste.

Raffaele Botta (“«Diritto alla moschea» tra «intesa islamica» e legislazione regionale sull’edilizia di culto”, pp. 109–130) dimostra, sulla base di un minuzioso esame dell’attuale legislazione regionale, che una intesa non è indispensabile perché gli enti locali si impegnino a favorire la disponibilità di luoghi di culto, dal momento che basta la legislazione regionale vigente sull’edilizia di culto. Anche per quanto riguarda i cimiteri, l’attuale normativa sancisce che “i piani regolatori cimiteriali possano «prevedere reparti speciali e separati per la sepoltura di cadaveri di persone professanti un culto diverso da quello cattolico»” (p. 128:8ss). Le uniche due questioni che presentano una qualche difficoltà di soluzione riguardano la perpetuità della sepoltura e l’inumazione nel semplice sudario. Ma esse potrebbero essere affrontate sulla base di una semplice modifica unilaterale del Regolamento di polizia mortuaria. Pertanto, il diritto comune già tutela il diritto del fedele musulmano a disporre di luoghi di culto e ad ottenere una sepoltura rispettosa dei dettami della sua fede.

Alessandro Ferrari (“Le scuole musulmane in Italia: tra identità e integrazione”, pp. 131–156) affronta il tema dell’inserimento dei musulmani nel sistema scolastico italiano. Egli fa notare come, per vari motivi, una domanda di scuola privata islamica sia poco rilevante; al contrario, espressioni più significative di una presenza islamica in ambito scolastico sono le «scuole straniere». Dopo un esame approfondito della normativa scolastica [121] italiana vigente, l’autore arriva alla conclusione che essa non sembra “presentare ostacoli insormontabili alla realizzazione delle principali esigenze delle scuole musulmane” (p. 143:6s). Anzi, Ferrari ritiene che lo strumento dell’intesa non sembra idoneo per affrontare questioni relative all’istruzione privata islamica.

Una questione complementare a quella precedente riguarda “L’istruzione religiosa nelle scuole pubbliche” (pp. 157–173, di Nicola Colaianni). L’autore, dopo aver esaminato le convergenze e le divergenze delle tre proposte di intesa su questo tema, traccia quali delle richieste presentate siano attuabili sulla base del diritto comune, e quali sulla base del diritto di derivazione pattizia. Se in generale “l’istruzione religiosa rientra nelle garanzie comuni” (p. 167:6s), il divieto di ingerenza sull’educazione degli alunni musulmani rientra tra le proposte attuabili solo mediante intesa (p. 167). Tuttavia “le aree di conflitto tra istruzione pubblica e una rigorosa formazione religiosa islamica appaiono potenzialmente numerose” (p. 169:26s). In ogni caso, vanno salvaguardati due principi supremi dell’ordinamento costituzionale italiano, quello del riconoscimento dei diritti inviolabili della persona anche all’interno delle confessioni, e quello di laicità dello Sato (p. 171).

Cristina Campiglio (“Famiglia e diritto islamico. Profili internazional-privatistici”, pp. 175–185) mette bene in risalto i punti di contrasto, sulla base delle norme del diritto internazionale privato italiano, riguardanti la problematica relativa al diritto matrimoniale quando una delle parti, o entrambe le parti, siano di religione islamica: la capacità matrimoniale e gli impedimenti, la poligamia, i rapporti personali e patrimoniali tra coniugi, lo scioglimento del matrimonio mediante ripudio, e la filiazione.

Un altro punto delicato nei rapporti Stato italiano-Islam riguarda “La rilevanza civile delle festività islamiche” (pp. 187–199, di Luciano Musselli). Dopo aver operato la distinzione tra festività di rilievo sociale e istituzionale e le altre festività tipiche di una confessione o di un gruppo, l’autore si chiede se esista un diritto alla festività e quale ne sia il contenuto. Egli tratta poi del diritto alle festività religiose nell’ordinamento vigente sia nei paesi europei che nell’ordinamento italiano (diritto comune, contratti collettivi di lavoro, diritto di fonte pattizia). Infine, l’autore prende in esame le proposte contenute nelle tre bozze, che si presentano con alcune interessanti diversificazioni.

Un’altra questione, comune alla comunità ebraica, è relativa alla “Macellazione e alimentazione” (pp. 201–221, di Alberto Roccella). È noto che lo stesso Corano e la legge religiosa islamica dettano precise regole in materia. Si pone il problema del rapporto tra tali prescrizioni e il principio della libertà di religione. Se “può essere dubbio che il rispetto delle prescrizioni [122] alimentari islamiche costituisca contenuto della libertà di religione, è però difficile negare che tale rispetto quanto meno si colleghi alla predetta libertà” (p. 202:27ss). I valori in gioco sembrano essere, da una parte le prescrizioni religiose, e dall’altra una tendenza normativa alla protezione degli animali; ma si può accettare un criterio di bilanciamento favorevole alle esigenze religiose ebraiche e islamiche. L’autore fa un esame accurato di tutta la disciplina giuridica italiana sulla materia. In particolare, si sofferma sul d.m. 11 giugno 1980 relativo alla Autorizzazione alla macellazione degli animali secondo i riti religiosi ebraico ed islamico, con il quale sembrano soddisfatte le esigenze religiose islamiche. Anzi, le tre bozze di intesa hanno chiesto una garanzia pattizia proprio per le norme contenute in quel decreto, come del resto è già stato fatto con l’intesa stipulata nel 1987 con l’Unione delle comunità ebraiche italiane. Peraltro, il decreto del 1980 è stato superato dal decreto legislativo n. 333 del 1998, in base al quale le macellazioni rituali sono ora ammesse da una fonte normativa primaria, il decreto legislativo, emanato senza alcuna previa intesa con l’Unione delle comunità ebraiche. Per quanto riguarda, infine, l’alimentazione ḥalāl negli istituti di detenzione, negli ospedali e nei servizi pubblici, le bozze di intesa non prevedono nulla. Lo strumento normativo, più che una legge (salvo che per gli istituti di detenzione), potrebbero essere le carte dei servizi pubblici con le quali si fissano gli standard qualitativi.

Settimio Carmignani Caridi affronta poi il problema, connesso all’affermarsi di usi e costumi diversi, della “Libertà di abbigliamento e velo islamico” (pp. 223–234). A parte il tanto clamore suscitato sulla stampa in questi ultimi anni da alcuni episodi collegati a questo tema, l’autore, dopo aver considerato la situazione alquanto diversa in ambito francese e svizzero, esclude che in Italia ci siano dei limiti di rango costituzionale che impediscano l’uso del velo. Alcuni limiti si possono trovare nella normativa generale che si occupa di abbigliamento. Si tratta del limite della “pubblica decenza”, concetto che peraltro ha subito col tempo una progressiva evoluzione; il limite dell’abbigliamento quale elemento idoneo ad indurre ad una falsa individuazione sociale della persona; il limite dell’abbigliamento quale elemento idoneo ad occultare o ridurre la riconoscibilità della persona. L’uso del velo islamico nella scuola si può ritenere lecito sulla base della normativa vigente fintantoché non si assumano atteggiamenti prevaricatori e irrispettosi delle libertà degli altri allievi. Per i luoghi di lavoro invece, secondo una linea di tendenza, esiste libertà di abbigliamento, con il limite del rispetto di particolari esigenze igieniche, di sicurezza o anche di immagine dell’azienda.

Nell’ultimo intervento della seconda parte, Bruno Nascimbene (“Straniero e musulmano: Profili relativi alle cause di discriminazione”, pp. 235–241) [123] esamina la nuova disciplina dell’immigrazione contenuta nella legge 6 marzo 1998 (e successivo decreto legislativo del 25 luglio 1998, n. 286), mettendo in risalto come, in primo luogo, la legge afferma la parità di trattamento in ordine al riconoscimento dei diritti fondamentali, nonché dei diritti civili. Norme importanti della legge, riguardanti il diritto all’unità familiare, il ricongiungimento familiare e il permesso di soggiorno per motivi familiari, conferiscono una posizione privilegiata alla tutela del minore. Peraltro, questa legge non detta alcun criterio per la definizione di coniuge e figlio rimandando alla legge nazionale della persona. Tuttavia, per il ricongiungimento familiare e per il soggiorno per motivi familiari, solo nei confronti del coniuge potrebbero esistere ostacoli nel limite dell’ordine pubblico nel caso di un matrimonio poligamico. I diritti sostanziali garantiti agli stranieri riguardano il diritto allo studio e all’istruzione, l’accesso all’abitazione e alla istituzione di centri di accoglienza, l’assistenza sociale e la parità di condizioni dei cittadini italiani. Particolare rilievo rivestono le misure di integrazione sociale previste dalla legge, come la necessità di favorire la conoscenza e la valorizzazione delle espressioni culturali, ricreative, sociali, economiche e religiose, e l’organizzazione di corsi di formazione. Infine, notevole valore hanno le norme che garantiscono una nuova tutela in materia di discriminazioni per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

Per un utile raffronto della situazione italiana con analoghe esperienze europee sono molto utili i quattro saggi contenuti nella TERZA PARTE (Le esperienze straniere, pp. 243–308), che mettono in risalto un contesto molto frastagliato che fa emergere sempre più l’esigenza di una normativa comune a tutta l’Europa. Nel primo intervento Augustin Motilla (“L’accordo di cooperazione tra la Spagna e la Commissione islamica. Bilancio e prospettive”, pp. 245–263) traccia un quadro storico della situazione di quel paese. L’esperienza spagnola è molto interessante sotto molti profili. Innanzitutto, la Spagna è il primo e l’unico Stato europeo che, già dal 1992, ha emanato una legge con la quale si approvava l’accordo dello Stato spagnolo con la Commissione islamica di Spagna. In secondo luogo, è la stessa esistenza di questa Commissione a costituire una novità. Questo modello di Commissione potrebbe rappresentare anche per l’Italia una soluzione al problema molto discusso della rappresentanza della comunità islamica. L’accordo è stato raggiunto dallo Stato spagnolo con la maggior parte delle comunità islamiche iscritte nel Registro degli enti religiosi e riunite nelle due federazioni che, a loro volta, costituiscono la Commissione islamica di Spagna. Cosicché la normativa costituisce una disciplina che riguarda tutte le comunità islamiche. È stata la stessa Direzione generale degli affari religiosi a subordinare l’apertura delle trattative alla costituzione di federazioni di confessioni atte a raccogliere in un unico interlocutore le fedi apparentemente [124] comuni del Protestantesimo, dell’Ebraismo e dell’Islam. L’accordo spagnolo tratta molti punti contenuti anche nelle tre bozze di intesa presentate in Italia, come il matrimonio, l’assistenza religiosa nei centri pubblici, l’insegnamento della religione islamica, le esenzioni fiscali, le festività religiose, il patrimonio storico-artistico, le prescrizioni alimentari. Anche se “l’accordo del 1992 assicura alle comunità musulmane che fanno parte della Cis una tutela rafforzata di alcuni diritti e concede vantaggi economici e giuridici da parte dello Stato” (p. 262), tuttavia le divisioni tra le federazioni che costituiscono la Cis hanno bloccato la maggior parte delle disposizioni dell’accordo suscettibili di sviluppo.

Una situazione alquanto diversa si riscontra in Germania (Burkhard Guntau, “La condizione giuridica dell’Islam in Germania”, pp. 265–288) dove la normativa costituzionale non sfavorisce l’esercizio della religione per i musulmani, in quanto il diritto tedesco in materia religiosa è aperto a tutte le confessioni religiose e consente l’esercizio del culto anche nella vita pubblica. “In una società pluriconfessionale e multireligiosa lo Stato, in quanto patria di tutti i cittadini, deve essere religiosamente neutrale. Però neutralità religiosa non significa laicità intollerante” (p. 269:1ss). La forma giuridica che permette una maggior garanzia delle posizioni giuridiche di una confessione è lo status di corporazione di diritto pubblico, come è quello delle Chiese cristiane. Tuttavia, il conferimento di tale status presuppone una chiara determinazione dell’appartenenza, i requisiti della struttura organizzativa, e la garanzia della fedeltà alla Costituzione. Da anni i musulmani che vivono in Germania tentano di organizzarsi in modo da poter acquisire questo status; tuttavia, la difficoltà è costituita dal fatto che una organizzazione corporativa è estranea alla concezione e allo sviluppo storico dell’Islam. La legge costituzionale tedesca garantisce la libertà religiosa; ma essa non è illimitata, in quanto trova i suoi limiti nel principio di tolleranza e nel non recepimento del diritto islamico per il fatto che l’ordinamento giuridico tedesco obbliga anche i musulmani che vivono in Germania. L’autore esamina poi, alla luce della legislazione tedesca, una serie di problemi molto sentiti, quali quello delle scuole materne e dell’insegnamento della religione islamica nelle scuole statali, quello relativo al fatto se nelle scuole i docenti, le alunne o gli alunni possano indossare un abbigliamento che faccia diretto riferimento alla comunità religiosa di appartenenza, quello relativo all’assistenza spirituale nell’esercito, ai funzionari della polizia di frontiera, della polizia e dell’amministrazione doganale, il problema dell’assistenza spirituale negli ospedali e dell’assistenza spirituale ai detenuti, e quello relativo alla normativa in materia di cimiteri.

Se la Spagna può costituire un modello per il tipo di accordo sottoscritto con le varie comunità islamiche, il Belgio offre un altro modello altrettanto [125] interessante e significativo (Maria Luisa Lo Giacco, “La rappresentanza unitaria dell’Islam in Belgio”, pp. 289–300). Questo paese, pur dichiarandosi neutrale in materia religiosa, fonda il suo equilibrio sulle varie comunità presenti sul suo territorio; per questo si può qualificare come «modello comunitario» (p. 299:33s). Il problema, comune a tutti i paesi europei, presentatosi in passato anche in Belgio, riguardava essenzialmente quello della individuazione di una rappresentanza unitaria dell’Islam. Sul piano giuridico, già dal 1974 il Belgio “ha concesso lo status di religione riconosciuta all’Islam, ponendola così accanto alle confessioni cattolica, anglicana, protestante ed israelita” (p. 290). In questo modo la confessione islamica si è venuta a trovare sullo stesso piano delle altre religioni riconosciute godendo di tutti i diritti a queste spettanti secondo la Costituzione e le leggi belghe. Tuttavia, questo riconoscimento ha avuto effetti più teorici che pratici proprio per la mancanza di una rappresentanza unitaria di tutti i musulmani. Nel corso degli anni vi sono stati vari tentativi infruttuosi di soluzione di questo problema, fino a quando non è stato deciso di organizzare libere elezioni, svoltesi nel febbraio 1999, all’interno della comunità islamica belga. “Il Belgio ha indubbiamente avuto «il merito di divenire il primo paese europeo che abbia organizzato la rappresentanza temporale del culto islamico»” (p. 289). Il ricorso a libere elezioni è stato giustificato con l’istituto islamico della concertazione (che non corrisponde al nostro concetto di democrazia) tra tutti i fedeli musulmani. Si apre così un orizzonte nuovo per il dibattito sulla «laicità islamica» (p. 299:16).

L’ultimo intervento della terza parte riguarda la problematica della presenza islamica in Francia (Franck Fregosi, “L’Islam e la Francia secondo Jean Pierre Chevènement. Profili teorici e pratici di un Islam repubblicano”, pp. 301–308), e, in particolare, i vari tentativi di organizzare l’Islam dall’alto scegliendosi preliminarmente un unico interlocutore, fino alla scommessa, fatta dal ministro Chevènement, di una vasta consultazione ufficiale delle cinque organizzazioni cultuali islamiche che hanno maggiore importanza in Francia. Il duplice obiettivo è stato di “realizzare definitivamente l’integrazione della comunità musulmana nel contesto legislativo che disciplina le relazioni tra i poteri pubblici e le varie comunità religiose in Francia, sulla base dei principi che derivano dalla legge di separazione del 9 dicembre 1905” (p. 303), e di “favorire, a partire dalle organizzazioni già esistenti, l’emersione progressiva di una istanza decisionale che sia contemporaneamente centrale e confederale, prima tappa verso la creazione di un’organizzazione rappresentativa della comunità musulmana” (p. 304). Questa prima tappa comprende una dichiarazione preliminare, in sette articoli, sui diritti e doveri della comunità islamica in Francia, inviata per la ratifica a tutte le organizzazioni islamiche partecipanti alla consultazione. [126] Nel preambolo, se da una parte si afferma il principio della libertà di pensiero e di religione, dall’altra si sottolinea anche il carattere laico della Repubblica e il rifiuto di ogni discriminazione fondata sul sesso, la religione, l’appartenenza etnica, ecc. Resta tuttavia da attendere l’adesione formale delle grandi organizzazioni islamiche francesi. Il progetto, privilegiando nettamente l’aspetto cultuale su ogni altra dimensione, ha voluto sottolineare l’ideale di uno Stato repubblicano e risolutamente laico.



[1] Il Mulino (Prismi), Bologna, 2000 (21 cm, 312); ISBN 88-15-07330-2 (L. 32.000).

[2] Si veda A. Pacini, in Musulmani in Italia, p. 49.

[3] L. Musselli, “I rapporti tra islam e ordinamento italiano: una problematica intesa”, in Il Politico. Rivista Italiana di Scienze Politiche. Nuova Serie degli Annali di Scienze Politiche (Univ. Pavia), aprile-giugno 1999, anno LXIV, n. 2. p. 294.

[4] Si veda “La comunità islamica”, in L’islam oggi (a cura di W. Ende, U. Steinbach), Ed. Dehoniane, Bologna 1993, p. 24.